Empatia da chirurgo: come essere al fianco dei pazienti. Sempre
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Qualche giorno fa mi è capitato di vedere in edicola la copertina del nuovo numero della rivista scientifica National Geographic, sulla quale campeggiava il titolo “Storia di un volto”. Non sono sicuro se sia stata l’immagine in primo piano o, più probabilmente, il fatto che nel sottotitolo si parlasse di un “trapianto di viso” ad avermi persuaso a comprare la rivista. Ho letto e mi sono documentato, perciò, sulla vicenda di questa giovanissima americana di 21 anni, Katie Stubblefield, la cui storia personale è stata riscritta in parte dalla chirurgia.
Sopravvissuta a un tentativo di suicidio, un colpo di fucile da caccia sotto il mento, Katie ha riportato danni gravissimi a buona parte del volto, con numerose altre complicazioni di natura funzionale. Un singolo colpo che, per paradosso, non è risultato fatale per la giovane.
A distanza di tre anni, Katie è stata sottoposta a trapianto totale di volto: un’operazione eseguita dall’equipe medica della Cleveland Clinic dell’Ohio, che l’ha resa la donna americana più giovane ad essere sottoposta a questo tipo di intervento, non una novità negli Stati Uniti.
Proprio mentre scrivevo questa riflessione, è arrivata la notizia: il primo trapianto integrale di volto in Italia. Una donna di 49 anni, affetta da una grave malattia genetica (la neurofibromatosi di tipo 1), ha ricevuto la faccia di una ragazza di 21 anni.
L’intervento, al quale la donna si preparava da quattro anni, è stato eseguito a Roma, presso l’ospedale Sant’Andrea, sotto la direzione del dott. Fabrizio Santanelli di Pompeo, responsabile dell’unità operativa di Chirurgia plastica. Il dott. Santanelli, insieme al dott. Benedetto Longo, suo collaboratore, ha coordinato la complessa fase di espianto del tessuto facciale dalla donatrice e il successivo reimpianto sulla ricevente.
Venti ore in sala operatoria, per un protocollo sperimentale approvato ad hoc da Centro Nazionale Trapianti e Consiglio superiore di Sanità.
Queste due storie, così diverse ma così simili nei risvolti psicologici, nel carico emotivo che si portano dietro, mi hanno portato a pormi una domanda: cosa pensa chi si guarda allo specchio per la prima volta dopo l’intervento?
Il “momento dello specchio” all’indomani di un’operazione chirurgica che in qualche modo ha contribuito a cambiare l’aspetto del paziente è un momento che merita attenzione e che suscita una riflessione: che si tratti di un’operazione per fini estetici “per piacersi di più” o di un’operazione necessaria “per tornare a piacersi”, il confronto con lo specchio e l’immagine che esso restituisce è un momento di “rivelazione” anche per il chirurgo stesso: il paziente va preparato ed accompagnato, confidando in un sorriso rivelatore di un intervento ben riuscito ed apprezzato.
Per questo motivo credo che per essere un buon chirurgo, oltre che saper usare forbici, bisturi ed ago, bisogna avere la capacità di empatia con il paziente, con la sua condizione e con ciò che l’intervento rappresenta in quel momento della sua vita. In poche parole, essere anche un po’ psicologi…
P.s. Segnalo a chiunque possa essere interessato che il prossimo 24 settembre andrà in onda sul canale satellitare di National Geographic il film-documentario sulla vicenda di Katie.